2006·02·17 - Left n. 6 • Maggiorelli·S + ABO • L’arte del narcisismo

L’arte del narcisismo

__________
Cultura & Scienza
~~~~~~~~~~
Emergenza creatività urbana. Gli esordienti e le tendenze. Achille Bonito Oliva contro i “critici camerieri”
~~~~~~~~~~
In alto un ritratto di Achille Bonito Oliva.
Accanto, ‹Under dog› di Liliana Moro (2005, courtesy Galleria Emi Fontana).
Nella foto a piena pagina l’installazione di Sislej Xhafa al Quarter di Firenze
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯
di Simona Maggiorelli
Left n. 6 — 17/02/2006 (venerdì 17 febbraio 2006), pp. 68-69.


Con lui il critico da servo di scena è diventato protagonista. Un po’ veggente che fiuta il futuro, un po’ maieuta che seduce gli artisti a fare di un’opera che viveva solo nella mente una cosa concreta. Del resto Achille Bonito Oliva lo ha sempre detto: «Critici si nasce, artisti si diventa e pubblico si muore». E fra l’urgenza pubblica di una mostra nella metropolitana di Napoli, una maxi rassegna a Shanghai e una notte dell’arte da apparecchiare a giugno nel bosco della Certosa di Padula, il critico napoletano dà i voti a tutti. E a qualcuno va di traverso.

Professore, c’è chi l’accusa di stroncare per partito preso.

Per esempio?

Vittorio Sgarbi sul ‹Giornale› ha scritto di “tangheri e pettegoli” rei di non aver apprezzato la sua mostra ‹Caravaggio e l’Europa›.

Sgarbi è solo un vanitoso. È come una modella che vorrebbe sempre l’applauso. E quando non gli arriva, se lo fa da solo.

E lei?

Io sono un narcisista. Uno che osa progetti complessi, problematici.

Un evento non suo e interessante?

Direi la nascita di Quarter a Firenze. Uno spazio puro, di grande pulizia architettonica ed estetica. È la migliore kunsthalle italiana, per scelta di artisti, di opere e con un dilettole, Sergio Risaliti, che con una personale struttura espositiva è riuscito a vivificare una zona periferica della città, portandoci gente giovane e attenta. In una Firenze ingessata nel mito dell’antico mi pare un segno assai importante.

[D·5] • Adesso ospita un giovane artista, l’arabo-newyorkese Sislej Xhafa.

Xhafa ha realizzato un’opera molto particolare, con un tombino in ceramica al centro, evidenziando l’horror vacui dello spazio e rendendo in qualche modo protagonisti gli spettatori che vanno alla ricerca dell’opera. Anche questo fa di Quarter uno spazio inedito. Non ci sono opere precotte, preconfezionate, spostate e messe in bella vista, ma opere nate in un dialogo fra artista, spazio fisico e curatore.

Ma oggi il curatore, per dirla con le sue parole, serve o sparecchia?

Nel sistema dell’arte c’è una giusta divisione del lavoro intellettuale, come in ogni campo. Dal critico totale della mia generazione si è staccata questa costola che è il curatore. Dovrebbe realizzare delle mostre. Ma nella maggior parte dei casi si tratta solo di “filippini della critica”, che fanno pura manutenzione del presente senza prospettive verso il futuro e senza coscienza del passato.

La globalizzazione ha portato grande circolazione di opere ma anche un certo livellamento. È possibile una vera autonomia?

E come no!

Ma è faccenda di pochi?

I migliori sono sempre pochi. I grandi artisti sono pochi. I grandi critici sono pochi. I grandi curatori sono pochi. Ci sono delle attitudini personali che fanno la differenza.

Per esempio?

La resistenza contro le mode, la coscienza della cultura internazionale, l’identità dell’artista, il genius loci. È una complessità che deve abitare la strategia del curatore e del critico. La globalizzazione è un trend universale da sempre. Non la si può combattere in nome di un’autarchia, sarebbe patetico e distruttivo. Va attraversata e canalizzata nella direzione di cui parlava De Saussure quando parlava di idioletto, che non è il dialetto, ma un idioma universale che ciascuno di noi parla con il proprio accento.

La sua idea di arte che cura, che cambia una periferia e la rende più vivibile è un’utopia ancora valida?

È un’esperienza coraggiosa, che continua. L’arte dà centralità ad ogni spazio geografico.

Gibellina ne è stata un esempio?

Lo è stata e, in qualche modo, continua ad esserlo. Ma ci sono anche altri esempi di arte pubblica come il Museo obbligatorio di Napoli, uno spazio dentro la metropolitana dove chiamo artisti perché intervengano con opere che poi restano installate, fisse, in nome di una committenza pubblica. L’arte così esce dalla sua cornice, dai luoghi deputati e abita la città. A Napoli si tratta di una zona piena di centri commerciali, di negozi. Un centro che ora pulsa esteticamente. Con un programma.

Licenziato dal Pecci, Daniel Soutif accusa il sistema dell’arte italiano di naufragare nell’ambiguità fra pubblico e privato.

Il Pecci è un esempio emblematico di mancanza di progetto politico e di sottovalutazione dell’occasione. Tranne quella di Soutif, tutte le nomine precedenti alla direzione sono di basso profilo. Per rilanciarlo ci vorrebbe più coraggio da parte delle istituzioni pubbliche.

Ma qualcosa in Italia si sta muovendo?

Eccome. Basta dire che una città problematica come Napoli ormai ha tre musei: il Madre, il Palazzo delle Arti e Castel Sant’Elmo, oltre alle 100 opere sparse nella metropolitana. Funziona bene Rivoli ma anche il Mart di Rovereto e poi il Macro di Roma e in parte il Maxxi del resto ancora in fieri.

Ida Gianelli ha investito vent’anni sul museo di Rivoli.

Ha lavorato con coerenza, grande moralità e concentrazione.

Ma i Comuni preferiscono mostre d’impatto?

Questo è il solito cinismo delle amministrazioni che varano mostre con titoli di artisti importanti e opere molto minori. Dove non c’è un allenamento al contemporaneo la popolazione più ingenua degusta quello le viene proposto. Ma cominciano ad esserci anche Comuni più sensibili al contemporaneo che invitano artisti capaci di intervenire sul sociale in maniera non retorica, aprendo nuovi processi di conoscenza, vicini ai problemi reali.

A chi si riferisce?

A Michelangelo Pistoletto, per esempio, con la sua città dell’arte a Biella, ma anche a un artista come Alberto Garutti per rimanere su una linea di arte pubblica. Su una linea di arte espressiva più legata a una poetica individuale, invece, Cucchi, Di Clemente, De Maria, Fabro, Paolini.

[D·17] • E tra le nuove generazioni?

Liliana Moro è un’artista interessante e poi Xhafa e molti altri. Quella più in crisi, invece, mi sembra la linea performativa legata alla sorpresa, allo choc estetico. Cattelan e Beecroft, benché buoni artisti, fanno difficoltà a fare proseliti.

I giovani artisti da noi faticano ad emergere?

La novità è una rete di musei — dalla Gam di Bergamo al Man di Nuoro — guidati da giovani direttori di valore che danno appoggio agli emergenti italiani penalizzati da un paese che non si fa carico della ricerca artistica. Ma certamente non basta.

Il governo ha appena varato una legge sul diritto di successione che obbliga chi vende un’opera a dare all’artista una quota del ricavato. Che ne pensa?

Moralmente tutto il bene possi bile, giuridicamente non so come faranno. La questione fu sollevata anche in America negli anni 70. Poi non se ne fece nulla.

[D·20] • Perché?

Mi scusi, ma l’artista come fa a sapere quando la sua opera viene rivenduta? Che fa manda la polizia a casa dei venditori? Oppure va a trovarli ogni sera per vedere se l’opera è al suo posto? Mi pare una follia.


_____________________
ANNOTAZIONI E SPUNTI
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯
COMMENTO — Come si può notare dall’immagine, il testo in caratteri bianchi sul fondo grigio di una foto a tutta pagina non agevola la lettura. Una scelta senza dubbio originale, ma anche visivamente problematica, un’ulteriore conseguenza della quale è che non compaiono i numeri di pagina, cui non era forse tecnicamente praticabile cambiare colore solo per queste due pagine.

[D·5] «[…] l’arabo-newyorkese Sislej Xhafa»: si tratta in realtà di un artista di origine kosovaro-albanese (nato nel 1970), e attualmente stabilitosi a New York; non sono note molte notizie biografiche, non esiste su di lui una pagina di wikipedia in italiano, ma è possibile consultare quella in inglese (https://en.wikipedia.org/wiki/Sislej_Xhafa).
[ivi] Nella risposta: «[…] un’opera molto particolare, con un tombino in ceramica al centro […]»: è quella visibile nell’immagine di sfondo della doppia pagina dell’articolo.

[D·17] Nella risposta: «Liliana Moro […]», si tratta di un’artista milanese del 1961, definita da wikipedia “artista visiva” (vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Liliana_Moro) — sempre su internet sono anche disponibili diverse foto di sue opere.
[ivi] Nel testo originale (della risposta): «Catellan [sic!] e Beecroft, benché buoni artisti […]», è verosimilmente un refuso, il nome del noto artista moderno è “Cattelan”, precisamente Maurizio Cattelan (vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Maurizio_Cattelan) — corretto.
[ivi] Nella risposta: «[…] Beecroft […]», il nome completo è Vanessa Beecroft, è un’artista italiana (è presumibile che il cognome anglosassone le venga dal padre britannico) attiva soprattutto nel campo della ‹performance› vedi wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Vanessa_Beecroft).

[D·20] Nel testo originale (della risposta): «Oppure va a trovarci [sic!] ogni sera […]», è verosimilmente un refuso, dovrebbe essere “trovarli” (i venditori) — corretto.

_____
¯¯¯¯¯

Nessun commento:

Posta un commento